Note sul I dialogo degli “Eroici furori” di Giordano Bruno

Scritti del filosofo Nolano. Commenti su di essi e note sul suo pensiero.

Note sul I dialogo degli “Eroici furori” di Giordano Bruno

Messaggioda raffaella » 08/06/2013, 16:52

Note sul primo dialogo degli “Eroici furori” di Giordano Bruno.

In questo dialogo iniziale dell’opera in cui Bruno, sull’esempio di tanti maestri di spiritualità, condensa la sua dottrina mistica, egli vede nel la poesia il primo gradino che introduce alla preghiera mistica.
Aggiunge poi qualche prezioso cenno biografico per raccontare che, a causa della severità degli studi e degli impegni quotidiani di preghiera e di meditazione, egli vi ricorse solo quando, al culmine dei guai che gli procurarono maestri non adeguati, ne ebbe bisogno per consolarsi.
In totale contrasto con l’aristotelismo imperante egli insegna che, anche se si possono individuare categorie di poesia simili, tanti sono i generi della poesia quanti sono i poeti. Rispetto all’unico, perfetto e ultimo fine: la trasformazione dell’anima in Dio, che segna il limite estremo superiore della scala di valore della stessa, e che sola può essere detta tale, un primo genere inferiore, passando per quelli volgarmente sentimentali di Francesco Petrarca, perché natura non facit saltus può essere individuato nei volgari versi di Pietro Aretino. Ma la poesia segna un cammino in ascesa non solo se si considerano i generi, ma anche nella vita spirituale dei poeti. Quale angelo consolatore la poesia accompagna in questa ascesa specialmente le persone provate che si vedono i mali vissuti nella loro tragica vita tramutati in glorie eterne o, come si esprime l’autore, i loro cipressi in lauri e i loro inferni in glorie celesti, perché a coloro che sono favoriti dal cielo, i più grandi mali si convertono in beni tanto maggiori, perché le necessità partoriscono fatiche e studi, e questi, il più delle volte, una gloria di immortale splendore. In una poesia didascalica egli rivela che il suo cuore presenta come il Parnaso, monte delle muse, due punte con un’unica radice, proprio come il cuore nel senso che l’oggetto del suo amore, dalla bellezza che di lui rispecchia la natura si innalza a quella divina che è oltre le nubi e che solo la rivelazione ebraico-cristiana può lasciare intravedere. L’autore si rifà infatti, come tanti scrittori ecclesiastici, tra cui S. Bernardo e Origene, al Cantico dei Cantici. Perché Bruno non nomina Gesù espressamente? I motivi possono essere più di uno. Il primo, di valenza positiva, è il velo epifanico con cui gli Ebrei non pronunciano il nome di Yahwèh, e uno di valenza negativa, quello di non essere oggetto dell’attenzione e del supercilio di certi farisei che hanno sempre qualcosa da dire, ma solo per invidia e gelosia di mestiere. Per quest’ultimo motivo l’autore si è guardato bene dal chiamare, come avrebbe voluto, questo suo testo Cantico in parallelo al Cantico dei cantici. Il brano si chiude infatti proprio con la condanna della gelosia, figlia di invidia e di amore che le gioie del padre volge in pene (ha separato gli angeli da Dio), che appare infiltrata persino nel gruppo apostolico e che semina nel mondo odio e morte
Testimoniato dal dono delle lacrime e impiantato nella volontà, questo affetto sacro d’amore chiama a raccolta tutte le altre potenze come il capitano in una nave, affinché servano senza divisioni sotto le insegne di quell’unico affetto per un viso che solo ingombra la mente, per una bellezza a cui solo resta affiso, perché lo diletta e lo compiace: una bellezza che è un viso ma che è anche riflessa dalla bellezza della natura e che come una freccia gli fa ardere il cuore per quel solo amore.
Il suo paradiso è uno solo e pure, come le cime del Parnaso si distingue in uno che è assoluto in verità e in essenza e in un altro che è in solitudine, in ombra e in partecipazione. C’è un viso che unifica in se stesso l’Assoluto la verità e l’essenza, (cioè Dio) e la natura creata che è in similitudine, in ombra e in partecipazione. Uno comunque è l’oggetto amato, corrispondente dell’amante che genera in lui una piaga cara, soave e onorata (cfr la Llama de amor viva di S. Juan de la Cruz e le stimmate di Francesco e Caterina).
Il viso in cui si trovano in alchemica unità immanenza e trascendenza è il viso in cui si può amare la creatura e il Creatore, la natura e il biblico Figlio dell’uomo. Il viso da cui promana, come gloria sua e solo sua, la religione dell’amore in terra non è oggetto difficile da indovinare, anche perché più innanzi lo dividerà in due secondo un principio maschile e femminile; laddove Cristo e Maria sono presentati, sempre e solo in cifra ermetica, come terre, terre nuove ma terre, terre eoliche, cioè spirituali, sorte (ortae) dal grembo infuocato della terra (cioè vulcaniche) come astri nel mare della storia come vita esteriore e in quello della vita interiore e che sono custoditi nel petto dell’amante come i due poli dell’unico divino oggetto dell’amore eroico. In questo XII art. del Dl V la peculiarità della teologia nascosta di Bruno raggiunge il suo apice: non è di certo chiara, ma neppure tanto difficile da non potersi decifrare se si conosce la teologia spirituale cristiana e non solo quella cattolica occidentale di oggi, ma anche quella orientale dei greci e dei Padri egiziani.
Le due punte del Parnaso passano poi a indicare anche l’unità che, nella filosofia alchemica, nasce dalla sintesi dei contrari e dalla coincidenza degli opposti a cui dedicherà i due dialoghi successivi.
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